di Armando Polito
Gufi e gufare, insieme con 80 euro, sono forse le parole che abbiamo sentito più spesso in questi ultimi mesi …
La presunzione di noi umani nei confronti delle cosiddette bestie è scandita dal numero elevatissimo di loro nomi usati metaforicamente per stigmatizzare qualche nostro difetto (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/) e, al contrario, dal numero veramente ridicolo (mi vengono in mente solo l’aquila e la lince; il povero falco, invece, è condannato a simboleggiare tanto una persona fiera, coraggiosa ed intelligente, quanto una avida e rapace) di nomi usati per esaltare qualche nostro pregio.
Su alcuni, poi, abbiamo scaricato il peso delle nostre paure, in primis quello della morte. È il caso anche del gufo ma, per non guastare la giornata a me e, credo, ad un buon numero di lettori, parlerò della civetta, che in salentino è detta cuccuàscia, voce alla quale si dà la definizione (che poi è diventata un nesso sinonimico) di ceddhu ti la mmalenòa (uccello della cattiva notizia). Mentre nell’immaginario collettivo il nottambulo evocava (ora non più …) una figura dedita al divertimento se non al vizio (esclusi, naturalmente, metronotte e panettieri …), la civetta, invece, continua a godere della sua nera nomea unicamente per le sue abitudini notturne; e credo che se essa, invece, fosse stata da madre natura destinata a lanciare di giorno il suo verso, esso non risuonerebbe ancora oggi ai nostri orecchi (più correttamente: non sarebbe interpretato dal nostro cervello) come un funereo lamento.1
Ritornerò sull’argomento dopo aver fatto qualche osservazione di natura linguistica, riservando alle note ogni approfondimento tecnico che risulterebbe incomprensibile o quasi, dunque poco interessante, al lettore comune. Proprio per quest’ultimo, però, va fatta, comunque, una premessa, superflua per gli addetti ai lavori. Sull’origine greca di alcune voci del dialetto salentino in genere si fronteggiano da tempo due scuole di pensiero: l’una, più recente, capeggiata da Gerard Rohlfs (1892-1986), ritiene che tali voci siano un relitto della lingua introdotta dai coloni della Magna Grecia fin dall’VIII secolo a. C.; l’altra, più datata, capeggiata da Giuseppe Morosi (1844-1890) e ribadita da Oronzo Parlangeli (1923-1969) propende per l’origine medioevale, cioè ritiene che tali voci abbiano origine bizantina. La tendenza più recente contamina le due teorie e giunge alla conclusione (può apparire diplomatica ma secondo il mio modestissimo parere è la più sensata) che l’immigrazione medioevale potrebbe aver consolidato una base ellenofona molto più antica. È intuitivo che la ricostruzione di queste stratificazioni, da condurre sulle singole voci, è tutt’altro che agevole.
Vediamo intanto cosa dicono proprio su cuccuàscia i due grandi antagonisti.
Il Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976):
Intanto va detto che κικκαβαῦ (leggi chiccabàu) mal si adatta foneticamente come etimo, quanto meno diretto, di cuccuàscia. Il discorso cambia, invece, per κουκκουβάγια (leggi cuccubàghia), anche se va precisato che la forma greca moderna è κουκουβάγια (leggi cucubàghia), mentre κουκκουβάγια è la variante demotica o popolare. In parole povere: il Rohlfs pensa che cuccuàscia deriva dal greco moderno, ma nello stesso tempo strizza l’occhio al classico κικκαβαῦ, parola indeclinabile di origine onomatopeica.
Vediamo ora qual è l’opinione del Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870, p. 206):
Cuccuàscia per il Morosi è, dunque, sicuramente voce bizantina, anche se pure lui mette in campo un presunto aristofanesco, dunque classico, κοκκοβαῦ (leggi coccobàu) per il corretto (molto probabilmente l’errore è dovuto a citazione a memoria, mi rifiuto di pensare che sia una consapevole mistificazione fonetica per portare acqua al suo mulino) κικκαβαῦ.
Io credo, invece, che cuccuàscia potrebbe derivare dal greco classico e mi accingo a dimostrarlo partendo proprio da κικκαβαῦ. Questa voce risulta composta da κίκκα (leggi chicca)=gallina+βαύ (leggi bàu), voce onomatopeica che raddoppiata (βαύ βαύ) designa il verso del cane. Da βαύ deriva il verbo βαύζω (leggi bàuzo)=abbaiare, brontolare, invocare con alti lamenti. Gli ultimi due significati comportano una progressiva generalizzazione con abbandono della specializzazione canina come dimostra il verbo κικκαβάζω (leggi chiccabazo), squittire (di civetta), composto dal già visto κίκκα e da βάζω (leggi bazo)=dire. Βαύζω e βάζω sono entrambi di origine onomatopeica e la loro ζ (come ben sa o dovrebbe sapere chiunque si occupi di queste cose) deriva da un originario γj. La voce neretina suppone la mediazione di una forma cuccuvàscia (variante attestata a Salve, Alessano, Castrignano dei Greci e Galatina nel Leccese, a Carovigno nel Brindisino e a Uggiano Montefusco nel Tarantino) da cui cuccuàscia sarebbe derivata per normalissima sincope di –v-. Cuccuvàscia, a sua volta, suppone un greco *κοκκοβάγjα (leggi coccobàghia), della quale, secondo me, è figlio il greco moderno κουκουβάγια, in cui il mancato sviluppo –γj->-ζ– e la vocalizzazione –j->-i– potrebbero rappresentare il relitto di un fenomeno antichissimo, direi arcaico.
Nel lessico di Esichio di Alessandria (probabilmente V secolo d. C.), che raccoglie parole antiche, rare e dialettali, la voce κοκκοβάγη (leggi coccobaghe), k 3285, reca come sinonimo γλαῦξ (voce usata nel greco classico per indicare la civetta). Κοκκοβάγη è composto da κόκκυ=(leggi còcchiu)=cucù, il verso del cuculo+il tema βαγ– (leggi bag-) che potrebbe essere ciò che rimane (magari a livello popolare) di un originario βαγj-; insomma la voce esichiana, fosse anche bizantina, potrebbe confermare anche qui la continuazione di un fenomeno arcaico.
Prima di passare ad altro voglio spendere qualche parola in più sul primo presunto componente, la cui origine onomatopeica è resa evidente anche dal diverso vocalismo della serie di voci, classiche, che seguono; ogni gradazione comporta il riferimento ad un uccello diverso.
κακκάβη (leggi caccàbe)=pernice
κακκαβίς (leggi caccabìs)=pernice
κακκαβίζω (leggi caccabìzo)=stridere (della pernice e del gufo)
καύαξ (leggi càuax)=folaga
κίκιρρος (leggi kìkirros)=gallo
κίκυμω(ν)ίς (leggi kìkiumonìs)=civetta
κόκκυ (leggi còcchiu)=cucù (verso del cuculo)
κοκκυβόας (leggi cocchiubòas)=cuculo; la voce è composta da κόκκυ+il tema del verbo, anch’esso onomatopeico, βοάω (leggi boào)=gridare, risuonare
κόκκυξ (leggi còcchiux)=cuculo
κοκκύζω (leggi cocchiùzo)=fare cucù; per il fenomeno fonetico già ricordato κοκκύζω nasce da *κοκκύγjω (leggi cocchiùgjo), in cui κοκκύγ– è il tema, con spostamento obbligato dell’accento, del precedente κόκκυξ (terza declinazione), il cui genitivo è, appunto, κόκκυγος (leggi còcchiugos); a tal proposito aggiungo che è attestato anche un nominativo eolico della seconda declinazione κόκκυγος.2
κουκούφας (leggi cucùfas)= upupa
κωκύω (leggi cokiùo)=gettare un grido di dolore, gemere, lamentarsi
κώκυμα (leggi còkiuma)=gemito, lamento
Tornando al nostro animale va detto che in italiano (a parte civetta, anch’esso di origine onomatopeica) la voce più vicina al citato cuccuvàscia (e quindi al neretino cuccuàscia) è, già segnalato nella scheda del Morosi, cuccuvèggia, attestato (anche come forma verbale) in:
Angelo Poliziano (XV secolo), ballata X, v. 24: vedrai bella cuccuveggia (cito da Le Stanze, l’Orfeo e le Rime illustrate da Giosuè Carducci, La Barbera, Firenze, 1863, p. 320.
Giuseppe Parini (XVIII secolo) (cito dall’edizione delle Opere a cura di Francesco Reina , v. III, Stamperia e fonderia del genio tipografico, Milano, 1802, v.III, p. 116): E lì ciarla, sghignazza e cuccuveggia (Capitoli, I, 45).
La civetta costituisce un caso bestiale (ma la colpa è tutta umana …) di nobiltà decaduta. Notorio è, infatti, come essa nel mondo greco fosse sacra ad Atena, la dea della sapienza. Questo connubio è ben attestato dall’appellativo omerico della dea che vien detta glaucopide cioè dagli occhi azzurri, lucenti [in greco γλαυκῶπις (leggi glaucòpis), parola composta da γλαῦξ, lo stesso prima citato da Esichio, che significa civetta ma è connesso con l’aggettivo γλαυκός (leggi glaucòs)=scintillante, grigio-azzurro e ὄψ (leggi ops)=occhio] e anche in numismatica: nell’immagine una tetradracma del V secolo a. C. con al dritto testa di Atena con elmetto attico e al rovescio la civetta stante con ramo di olivo a sinistra, e a destra le prime tre lettere, maiuscole, ΑΘΗ, (leggi Athe) di ΑΘΗΝΑΙ (leggi Athenài)=Atene. A proposito di glaucopide, però, non è da escludere che il riferimento sia alle capacità visive del nostro animale in grado di dissolvere le tenebre e perciò metafora della sapienza.
In rete (riporto tra i tanti un solo link perché è difficile individuare chi per primo ha immesso l’informazione: http://it.wikipedia.org/wiki/Civetta_di_Minerva) si legge quanto segue: Gli occhi e il becco seguono la linea della lettera φ (fi), simbolo alfabetico greco della filosofia e in seguito della sezione aurea. Lettera che quindi accomuna armonia, bellezza e amore per la conoscenza e per la ricerca in senso lato. Peccato che la suggestività di questo dato non sia corroborato, come scienza e divulgazione corretta della stessa imporrebbero, dalla citazione di almeno uno straccio di fonte. Io dico, e resto in attesa di smentita, che la lettera φ è solo quella iniziale della parola φιλοσοφία (leggi filosofia) e che venne adottata per indicare la sezione aurea solo a partire dal XX secolo [prima si usava la lettera tau (τ)] dall’iniziale non di φιλοσοφία ma di Φείδιας (leggi Fèidias)=Fidia, il celeberrimo scultore del V secolo a. C. che avrebbe utilizzato tale misura nella realizzazione delle sculture del Partenone.
L’ironia della sorte ha voluto che nemmeno un parziale recupero dell’antico prestigio potesse essere propiziato dalla riproduzione proprio del verso dell’antica moneta nell’euro greco, anzi alla luce della disastrosa situazione economica della Grecia (solo della Grecia? …) si potrebbe proprio dire che la civetta non ha portato bene …
Ho già detto che il nostro grazioso animale aveva la definizione dialettale di ceddhu ti la mmalenòa. E che questa cattiva notizia non fosse quella di non aver fatto tredici al totocalcio per aver sbagliato un solo risultato o per essersi dimenticati di giocare al lotto i numeri, puntualmente usciti, che la nonna defunta aveva dato in sogno, lo si deduce dal sinonimo neretino (non registrato dal Rohlfs) cuccumìu. Lo credo, più che derivato dal citato κίκυμω(ν)ίς. probabile deformazione dei siciliani cuccuvìu3 e cuccufìu (che Giuseppe Pitrè registra come canto della civetta, del gufo4 e che secondo me potrebbero derivare da un *cuccubìu imparentato con le voci greche prima riportate in cui compare β) in incrocio con il tuttu miu (tutto mio) che per Trapani il Pitrè registra come il verso della civetta5. Si tratta in tutta evidenza di una paretimologia che la dice lunga, però, sul condizionamento psicologico e poi espressivo indotto dall’idea della morte.
È il caso, però, di metterla ora da parte per non correre il rischio di dimenticare alcuni usi metaforici di civetta, anche se l’immagine negativa iniziale risulta, in un certo senso, edulcorata. E’ il caso della donna vanitosa e frivola che cerca di attirare in modo malizioso l’attenzione e l’ammirazione maschile; ma non vi sembra la versione “volgare” dell’Ewigweibliche (Eterno femminino) di Goethe? Altro che filosofia! Bisogna pensare al concreto e, così, ecco serviti i prodotti-civetta ed i prezzi-civetta, nonché la civetta, così si chiama pure la locandina di un giornale o l’avviso di prima pagina che contiene gli argomenti trattati all’interno.
Che dire, poi, dell’auto-civetta utilizzata dalle forze dell’ordine per non dare nell’occhio ed agire sfruttando il fattore sorpresa?
E così la particolare propensione della civetta a fungere da uccello di richiamo ha finito, a seconda dei casi, per garantire in una certa misura la perpetuazione della nostra specie, per esporre a complicazioni di natura compulsiva la spesa quotidiana, a stimolare anche nell’acquisto di un giornale sollecitazioni di natura voyeuristica, per assicurare alla giustizia, almeno lo presumo, un numero maggiore di delinquenti. Per quest’ultimo punto non mi meraviglierei se nella prossima finanziaria si decidesse di mantenere immutato (se proprio non è possibile aumentarlo …) il numero delle auto blu e si riducesse (magari a 0 …) quello delle auto-civetta, perché non è moralmente corretto affrontare un delinquente con un mezzo su cui non campeggia l’odiata (dal delinquente) sigla (Carabinieri, Finanza, Polizia), così come non sarà considerato corretto nel pacchetto relativo alla riforma della giustizia intercettare comunicazioni telefoniche ad insaputa dell’indagato, perché in questo modo, anche se colto con le mani nella marmellata, non potrà attaccare quel motivetto che gli piace tanto e che fa a mia insaputa, a mia insaputa.
E, se nell’immaginario collettivo la civetta non fosse stata considerata un uccello brutto (credo per le inquietudini che suscita più che per l’aspetto, che almeno io non trovo affatto sgradevole) sicuramente non avremmo avuto il proverbio leccese Ogne cuccuàscia se vanta li cuccuasciùli soi (Ogni civetta si vanta i suoi piccoli) e probabilmente per esprimere lo stesso concetto avremmo mediato lo scarafaggio del napoletano (Ogne scarrafone è bbello a mmamma soia) o del siciliano (Ogni scravagghieddu a so’ matri pari beddu).
E il nome scientifico? Dappertutto si legge “Athene noctua Scopoli, 1769”. Intanto va detto che Scopoli è Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788) che pubblicò nel 1769 a Lipsia per i tipi di Hilscher l’Annus I historico-naturalis (opera integralmente consultabile e scaricabile in https://archive.org/stream/ioannisantoniisc14scop#page/n3/mode/2up). Le pp. 18-23 riportano i nomi e la descrizione dei rappresentanti della famiglia Strigidae, alla quale appartiene la nostra civetta. Ne approfitto per ricordare che Strigidae è voce del latino scientifico, forma aggettivale di strix=strige, vampiro, a sua volta dal greco στρίξ (leggi strix) con lo stesso significato. Al di là dell’evidente origine onomatopeica di στρίξ e delle sue più che probabili connessioni con τρίζω (leggi trizo)=stridere, ipotizzata già in epoca antica, faccio notare che il latino strix ha una sua variante in striga, da cui l’italiano strega6. E il cerchio intorno alla nostra civetta si fa sempre più stretto, ma non vorrei che queste osservazioni e quanto riportato nella nota 6 finissero sotto gli occhi di una persona che ben conosco e che non ci penserebbe su a costruire una fantasiosa correlazione, magari, solo per dirne una, con la menhirica madre, signora del papavero7 (tra il latte di uccello e il latte del papavero ci dovrebbe essere una relazione, ma per confermarla si consiglia un bicchiere non di vino o di altra sostanza alcolica, ma di … latte di gallina) con qualche altra fantomatica entità … oppure, chissà, per la sedicente ricercatrice di fama mondiale (che, però, a richiesta non è in grado di esibire ombra di bibliografia) sarebbe un’occasione unica per fare, finalmente, una citazione delle fonti …
Torno alle cose scientifiche, per dire che pure loro qualche volta lasciano perplessi. Ecco l’elenco delle specie del genere strix tratto dal testo dello Scopoli: Strix bubo, Strix otus, Strix giu, Strix nyctea, Strix aluco, Strix stridula, Stryx silvestris, Strix alba, Strix noctua, Strix rufa, Strix passerina. L’autore all’inizio correttamente cita Linn. Syst. Nat. p. 131, il vuol dire che ha tenuto presente il testo di Linneo Systema naturae, tomo I, uscito a Vienna per i tipi di Giovanni Tommaso Nob. De Trattnern nel 1767 (tredicesima edizione rivista sulla dodicesima uscita nel 1758 a Stoccolma a spese di Lorenzo Salvio), consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=siAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=systema+naturae&hl=it&sa=X&ei=4ta8VL_jCIT7UsfDg7AH&ved=0CDYQ6AEwAzgK#v=onepage&q=systema%20naturae&f=false
In Linneo sono classificati: Strix bubo, Strix afio, Strix otus, Strix scops, Strix nyctea, Strix aluco, Strix flammea, Strix stridula, Strix ulula, Strix funerea, Strix passerina. È assente nell’elenco la Strix noctua dello Scopoli, cui si riferisce la sottostante scheda.
Il mio stato confusionale, a questo punto, è totale perché, pur immaginando che in omaggio a Scopoli sia stato, successivamente, sostituito Strix con Athene, i dubbi identificativi rimangono quando nella scheda appena riportata leggo che l’animale ivi classificato è Carnioliae indigena (Indigeno della Carnia) e in silvis circa labacum copiosa (abbondante nei boschi vicino Labaco). Spero nell’aiuto di qualche ornitologo per chiarire la questione. Quanto a noctua è il nome latino della civetta e la sua derivazione da nox=notte è un inequivocabile riferimento alle abitudini notturne dell’uccello. Per dare un’idea di quali elementi stratificati nel tempo possano essere all’origine delle difficoltà di identificazione ricordo che diminutivo di noctua è nòctula, da cui nottola che designa un grosso pipistrello di colore bruno rossiccio, ma il nome in passato era sinonimo di civetta, animale che non poteva certo mancare nei repertori di simboli che tanto successo riscossero a partire dal secolo XVI fino a tutto il XVIII8. Il primo esempio è offerto dall’immagine che segue, tratta da Gioacchino Camerario, Symbolorum et emblematum ex volatilibus et insectis desumtorum centuria tertia, s. n., s. l. , 1596, p. 77 r.9 :
Sortem ne despice fati=Non disprezzare ciò che il destino ti ha riservato.
Non temere, quicumque sapit, laeva omina spernit,/cum ferat et spretum saepius exitium=Chiunque sia saggio non disprezza sconsideratamente i cattivi presagi dal momento che sopporta anche la morte più di una volta disprezzata.
Sullo stesso tema (si parla di nottola ma l’immagine è più vicina a quella di un gufo, Asio otus L., che di una civetta) quattro anni prima Giulio Cesare Capaccio in Delle imprese, Carlino & Pace, Napoli, 1592, p. 10010:
Da notare che qui nel motto è saltata, ironia del destino …, la i di fati.
Diminutivo, con cambio di genere di nottola, è nottolino, cioè il nome del pezzo di legno che, somigliante ad un becco di uccello, girando su un perno chiude porte, cancelli e simili.
È giunto il momento di chiudere e lo faccio con un antico proverbio salentino: A ccasa ti sunaturi no ssi pprtanu sirinate(In casa di musicisti non si portano serenate). A chi già sta pensando che il mio cervello sia arrivato allo stadio della fusione ricordo il γλαῦκ’εἰς Ἀθἡνας mittam11 (Manderò una civetta ad Atene, cioè farò una cosa inutile) di Cicerone (I secolo a. C.) che è una citazione del τίς γλαῦκ᾽ Ἀθήναζ᾽ἤγαγεν;12 (Chi ha portato una civetta ad Atene?) di Aristofane (V-IV secolo a. C.). E, a distanza di quasi duemila anni dall’inventore (che molto probabilmente aveva riportato un proverbio popolare …) Ludovico Ariosto (XVI secolo): Portar, come si dice, a Samo vasi, nottole a Atene, e crocodili a Egitto13.
Riallacciandomi alla precedente richiesta di aiuto su Athene noctua Scopoli, 1769, concludo dicendo che il proverbio appena ricordato non vale per me e, perciò, mi aspetto un generoso contributo. E che l’immagine finale, in cui compare un involontariamente avveniristico dettaglio di quella precedente, sia, in tal senso, nonostante le apparenze, di ottimo auspicio …
* Qui continua ad essere un mortorio e mi sono stufato di avere davanti, per un pugno di crocchette, un uccello virtuale ed un topo di plastica.
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1 Un tempo anche l’upupa per il suo verso monotono era ritenuta un uccello notturno. Purtroppo tale credenza non venne corretta prima che questa calunnia nei suoi confronti venisse consacrata più di due secoli fa, sulla scia della poesia cimiteriale inglese, dalla poesia del Foscolo: E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,/l’ùpupa, e svolazzar su per le croci/sparse per la funerea campagna/e l’immonda accusar col luttuoso/singulto i rai di che son pie le stelle/alle obblîate sepolture … (Dei sepolcri, 81-86).
2 Da κόκκυξ deriva il latino còccyge(m), da cui l’italiano coccige (quest’osso ricorda nella forma il becco del cuculo).
3 Il Rohlfs registra cuccuvì per Mottola nel Tarantino.
4 Biblioteca popolare siciliana, v. XVI (Usi e costumi, credenze e pregiudizi), Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, Palermo, 1889, p. 396.
5 Op. cit., stessa pagina della nota precedente. Ne approfitto per ricordare a tal proposito un aneddoto da cui sarebbe nato uno dei due nomignoli degli abitanti di Galatina (l’altro è carzi larghi=guance larghe, con riferimento al modo di parlare): cuccuàsci. Si narra che un contadino di Galatina dopo una mietitura molto abbondante guardava con orgoglio i suoi covoni ammonticchiati sull’aia. All’improvviso una cuccuàscia lanciò il suo verso e il poveretto, di fronte a quel suono inteso come tutto mio e a quell’insolita rivendicazione di proprietà, iniziò un’animata discussione con l’uccello. Di fronte ai reiterati tutto mio del volatile il contadino decise di venire a patti e chiese che gli fosse riconosciuta la proprietà di almeno la metà del raccolto. Poiché i tutto mio si susseguivano come e più di prima, il contadino esasperato e indispettito prese la decisione estrema e, dopo aver esclamato (per la storia: lo disse in dialetto galatinese, ma io riporto solo la traduzione in italiano): -Tutto mio? Bene, io dico niente a nessuno! – appiccò il fuoco ai covoni.
Nell’aneddoto, in cui si condensa, come in tutti i nomignoli, lo sfottò degli abitanti limitrofi, vi è un riferimento, secondo me neppure troppo vago, allo stemma cittadino (in basso, tratto da wikipedia), in cui è presente una civetta (riferimento ad una presunta origine greca basata sull’ipotesi che la città sia stata fondata da Galata, figlia di Teseo, l’eroe attico; e come s’è detto, la civetta era il simbolo di Atene, capoluogo dell’Attica).
6 Ecco le più significative attestazioni di strix e striga nella letteratura latina: Orazio (I secolo a. C.), Epodi, V, 15-24: Canidia brevibus implicata viperis/crinis et incomptum caput,/iubet sepulcris caprificos erutas,/iubet cupressos funebris/et uncta turpis ova ranae sanguine/plumamque nocturnae strigis/herbasque, quas Iolcos atque Hiberia/mittit venenorum ferax,/et ossa ab ore rapta ieiunae canis/flammis aduri Colchicis (Canidia con i capelli intrecciati di corte vipere e il capo incolto ordina che siano bruciati al fuoco della Colchide caprifichi strappati ai sepolcri, cipressi funebri, uova tinte di sangue di rana, piume di strige notturna, erbe che provengono da Iolco e dall’Iberia fertile di veleni e ossa strappate dalla bocca di cagna digiuna).
Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Fasti, VI, 131-140: Sunt avidae volucres, non quae Phineia mensis/ guttura fraudabant, sed genus inde trahunt:/grande caput, stantes oculi, rostra apta rapinae,/canities pennis, unguibus hamus inest./Nocte volant puerosque petunt nutricis egentes,/et vitiant cunis corporea rapta suis./Carpere dicuntur lactentia viscera rostris,/et plenum poto sanguine guttur habent./Est illis strigibus nomen, sed nominis huius/causa, quod horrenda stridere nocte solent (Ci sono uccelli ingordi, non quelli che sottrassero il cibo dalla mensa di Fineo [le arpie], ma appartengono allo stesso genere. Hanno una grande testa, lo sguardo fisso, il becco adatto a rapire, le piume bianche, le unghie dotate di artigli. Volano di notte alla caccia di bambini privi di nutrice e straziano i corpi rapiti dalle loro culle. Si dice che estraggono col becco le candide viscere e hanno la gola piena del sangue bevuto. Si chiamano strigi e la ragione di questo nome sta nel fatto che di notte son soliti stridere orrendamente).
Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XI, 99: Lac nisi animal parienti. Volucrum vespertilioni tantum: fabulosum enim arbitror de strigibus, ubera eas infantium labris inmulgere. Esse in maledictis iam antiquis strigem convenit, sed quae sit avium, constare non arbitror (Nessun animale ha latte ad eccezione di quello che partorisce e tra gli uccelli solo il pipistrello. Credo perciò che sia favoloso ciò che si dice delle strigi, che con le loro mammelle allattano i bambini. È noto che nelle antiche maledizioni è presente la strige, non credo però che si sappia quale uccello sia).
Seneca (I secolo d. C.), Medea, 732-735: Miscetque et obscoenas aves/moestique cor bubonis et raucae strigis/execta vivae viscera (Mescola le carni di uccelli infausti, il cuore di un funereo gufo e le viscere strappate a una strige viva).
Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, 63 e 134: Cum ergo illum mater misella plangeret et nos tum plures in tristimonio essemus, subito strigae stridere coeperunt (Mentre dunque la madre poveretta lo piangeva e allora noi in parecchi eravamo in preda alla tristezza, subito cominciarono a stridere le strigi); Quae striges comederunt nervos tuos, aut quod purgamentum nocte calcasti in trivio aut cadaver?Quae striges comederunt nervos tuos? (Quali strigi hanno divorato i tuoi nervi o quale escremento o cadavere hai calpestato di notte in un crocicchio?).
Isidoro di Siviglia (V-VI secolo d. C.), Etymologiae, XII, 96: Haec avis vulgo amma dicitur, ab amando parvulos, unde, et lac praebere fertur nascentibus (Quest’uccello popolarmente è detto amma, dall’amare i bambini e perciò si si dice pure che essa offra il latte ai neonati).
Colgo l’occasione per ricordare che caddhu streu (cavallo stregone) a Nardò e Gallipoli e caddhu te stria (cavallo di strega) a Casarano e Galatina sono i nomi della mantide religiosa e che, a riscatto dei contenuti negativi originari, stria nel Leccese è sinonimo di ragazza.
Sulla base della testimonianza di Plinio confermata da Isidoro di Siviglia M. Alinei nel 1985 ha ipotizzato che tale caratteristica positiva della strige sia il relitto di una fase totemica antichissima in cui l’uomo interpretava se stesso come uccello o come figlio di uccello. Qualche anno dopo Marija Gimbutas sosteneva che le rappresentazioni preistoriche di strigiformi con genitali femminili e mammelle simboleggiavano la Dea madre. Se è così la demonizzazione del nostro uccello risalirebbe forse all’età dei metalli.
7 http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24641
8 Me ne sono occupato, anche con riferimenti concreti, in diverse occasioni (alcuni lavori sono stati pubblicati in più di una puntata; qui segnalo quella iniziale:
9 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=8WP_mxkMvh8C&pg=PT158&lpg=PT158&dq=sortem+ne+despice+fati&source=bl&ots=G2JrCt5vwO&sig=DKIrv4jNDI3Uj1xp7hGcvXf-_Rw&hl=it&sa=X&ei=voq-VPrgPMnUau20gbgE&ved=0CCgQ6AEwAQ#v=onepage&q=sortem%20ne%20despice%20fati&f=false
10 Integralmente consultabile e scaricabile in https://archive.org/stream/delleimpresetrat00capa#page/n339/mode/2up
11 Ad Quintum fratrem, II, 16, 5.
12 Gli uccelli, 301; non è da escludersi il riferimento alla moneta di cui ho già detto, anche perché al v. 1106 della stessa commedia: Γλαῦκες ὑμᾶς οὔποτ᾽ ἐπιλείψουσι Λαυρειωτικαί (Non vi mancheranno mai le civette del Laurio; l’allusione è alle monete raffiguranti la civetta coniate con l’argento estratto dalle miniere del monte Laurio).
13 Orlando Furioso, XL, 1, 5-6.
Secondo te, caro amico linguisticamente illustre, il nome piemontese della civetta che è “sivitola” può avere le stesse origini? Ecco io non ti do un mano, perchè non sono in grado, ma ti chiedo un aiuto.
Sergio Nptario
Caro Sergio, altro che illustre!, tutt’al più avrò la lingua lunga …
“Sivìtola” (credo che la parola sia sdrucciola), se si dovesse trascrivere in italiano, sarebbe “civèttola”; insomma, diminutivo di “civetta”, che con “cuccuàscia” ha in comune solo l’origine onomatopeica.
Giudizio popolare gastronomico neretino: “ale cchiui, na cuccuacia ti cinnaru, cca na jaddhrina ti puddhraru”
mai sentito questo proverbio! grazie Massimo. Quindi le mangiavano? anche questa è un’assoluta novità. Marcello
Secondo me il detto, che non conoscevo, non implica necessariamente un impiego gastronomico della civetta e, forse, la fama che si porta appresso lo ha sempre sconsigliato …
Molto più probabile, invece, sempre secondo me, che alluda al picco del periodo in cui la gallina tende a smettere di fare le uova; indirettamente ne vien fuori un omaggio al predatore che, non dimentichiamolo, si nutre, tra gli altri, di insetti e di roditori, che propriamente utili non sono (o, almeno, non sono considerati …). Conclusione, anch’essa soggettiva: a gennaio è più utile, cioé produttiva, una civetta di una gallina.
anche a Cutrofiano è noto l’antico proverbio: “meju na cuccuvacuia te gennaiu ca la meju caddhrina pe lu puddhraru”. Ho sentito da mio nonno questo proverbio, credo che l’origine è da ricercare in tempi in cui la carne era un privilegio per pochi e quando a gennaio capitava di catturare una civetta per farla mangiare a tutti, anche ai più restii, si diceva che a gennaio la cuccuvascia avesse particolari proprietà… sentivo anche un altro proverbio che diceva: “mangia carne te pinna e sìa ca è de corvu” a cui seguiva una seconda parte che non ricordo bene e che più o meno diceva “ama sangu civile e sìa ca è tirannu”. parlando del simpatico animale e del suo verso a me fin da bambino mi è stato insegnato (leggendo l’articolo trovo citato che anche a Trapani registrato dal Pitrè) a pronunciarlo “tuttu miu tuttu miu” ed è probabilmente ciò che la civetta vuole realmente dire considerando che essendo un predatore territoriale delimita la sua zona di caccia facendo presente ad altre civette che quel posto, quella zona è già occupata ed è come un invito ad andare altrove a cercare prede perchè lì è “tuttu miu!” (così mi raccontavano…). Il fascino di questo animale è innegabile al quale non resistono neanche gli le sue stesse prede, se alcuni prodotti commerciali vengono definiti civetta; cioè per attirare alcuni sprovveduti clienti; è perchè la civetta , non mi è chiaro per quale motivo, attira a se le allodole e anche molti altri uccelletti che quando vedono la sagoma dell’animale non resistono ad avvicinarsi pericolosamente al predatore, il così detto specchietto per le allodole usato da alcuni cacciatori altro non è che una sagoma di civetta con uno specchietto al posto degli occhi.
Oggi la popolazione di civette è in buono stato di salute, il loro numero è aumentato notevolmente dopo che per alcuni anni erano diventate una rarità… si dice che i rapaci siano all’apice della catena alimentare e quindi il fatto che i rapaci negli ultimi tempi siano notevolmente aumentati di numero voglio ottimisticamente immaginare che sia il segno che il nostro territorio è in buono stato di salute… di sicuro sono aumentate le loro prede preferite, i topi, un po’ per il progressivo abbandono delle campagne, un po’ perchè probabilmente il topo è un animale che si adatta bene anche in un ambiente degradato e nelle discariche… farei poi una nota sui rapaci in generale che hanno cambiato completamente le loro abitudini nel salento, ce ne sono tanti, davvero molti in certe zone, e sono rapaci che fino a qualche anno fa erano visibili da noi solo durante le migrazioni e che invece da qualche anno svernano tranquillamente nel salento come le poiane e altri falchi di piccole dimensioni… sarà che gli inverni sempre più miti fanno si che queste specie trovino piccoli rettili anche d’inverno? ci affidiamo alla potenza di madre natura… intanto ci godiamo il canto della cuccuvascia che continua ad emettere il suo “tuttu miu tuttu miu” per delimitare il suo territorio e man mano che passano i giorni e si va verso la primavera anche per annunciare alla sua innamorata che è tempo di metter su famiglia per pensare alla salvaguardia della specie…
Aristotele (IV secolo a. C.), Historia animalium, IX, 1, 609a: Τῆς δ’ ἡμέρας καὶ τὰ ἄλλα ὀρνίθια τὴν γλαῦκα περιπέταται, ὃ καλεῖται θαυμάζειν, καὶ προσπετόμενα τίλλουσιν• διὸ οἱ ὀρνιθοθῆραι θηρεύουσιν αὐτῇ παντοδαπὰ ὀρνίθια (Di giorno anche altri uccelletti volano intorno alla civetta, cosa che viene chiamata “l’ammirare”, e volandole vicino le staccano le piume; per questo i cacciatori si servono di essa per catturare uccelli di ogni specie).
Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, X, 19: Noctuarum contra aves sollers dimicatio. Maiore circumdatae multitudine resupinae pedibus repugnant collectaeque in artum rostro et unguibus totae teguntur (Abile è la lotta delle civette contro gli uccelli. Accerchiate da un gran numero si difendono supine con le zampe e, raccolte in se stesse in spazio ristretto, si proteggono con il becco e con gli artigli).
Eliano (II-III secolo d. C.), De natura animalium, I, 29: Αἱμύλιον ζῷον καὶ ἐοικὸς ταῖς φαρμακίσιν ἡ γλαῦξ. Καὶ πρώτους μὲν αἱρεῖ τοὺς ὀρνιθοθήρας ᾑρημένη· περιάγουσι γὰρ αὐτὴν ὡς παιδικά, ἢ καὶ νὴ δία περίαπτα, ἐπὶ τῶν ὤμων. Καὶ νύκτωρ μὲν αὐτοῖς ἀγρυπνεῖ, καὶ τῇ φωνῇ, οἱονεί τινι ἐπαοιδῇ, γοηθείας ὑπεσπαρμένης αἱμύλου τε καὶ θελτικῆς, τοὺς ὄρνιθας ἔλκει καὶ καθίζει πλησίον ἑαυτῆς. Ἤδη δὲ καὶ ἐν ἡμέρᾳ τοῖς ὄρνισι προσείει μωκωμένη, καὶ ἄλλοτε ἄλλην ἰδέαν πρωσώπου στρέφουσα, ὑφ’ὧν αἱροῦνται καὶ παραμένουσι οἱ νέοι πάντες ὄρνιθες. ἧρημένοι δέει καὶ μὰλα γε ἰσχυρῷ, ἐξ ὧν ἐκείνη μορφάζει (La civetta è un animale affascinante e simile alle streghe. E affascina per primi i cacciatori di uccelli quando viene presa: infatti se la portano appresso sulle spalle come la loro beniamina o, per Giove!, come portafortuna. E di notte veglia per loro e con la voce come se fosse un incantesimo, diffusasi un’affascinante e seducente magia, attrae gli uccelli e li fa posare vicino a sé. Anche di giorno si avvicina agli altri uccelli prendendosene beffa talvolta assumendo un aspetto diverso del volto; tutti gli uccelli ne sono attratti e se ne stanno muti, presi da un terrore molto grande a causa delle sue trasformazioni).
una precisazione… anche il secondo proverbio: “mangia carne te pinna e sia ca è de corvu” veniva detto per incitare a cogliere l’occasione di mangiare la carne anche se era di un rapace come la civetta…
Anticamente, ma neanche tanto, la qualità della carne in genere e in particolare quella della selvaggina si valutava essenzialmente dalla sua grassezza, per cui erano considerati di scarsa qualità organolettica le carni di uccelli come il passero e la fucosa (ossia l’allododola cappellaccia) poichè sempre magre, la civetta, evidentemente in gennaio era grassa, quindi considerata prelibata. Anche se certe cose oggi fanno solo rabbrividire, personalmente ho visto mangiare carni di gabbiani semicrude, ricci arrostiti vivi direttamente sulla brace, nidiacei delle più dispararate specie, uova di gazza mezze covate ed altre bestialità. Inoltre ho raccolto testimonianza dell’abituale consumo delle testuggini terrestri, motivo per il quale la nostra testuggine terrestre (Testudo hermanni) venne portata praticamente all’estizione verso la fine degli anni “60 del secolo scorso in occasione dello smacchiamento dei comprensori dell’Arneo. I braccianti impiegati in tale lavoro ne facevano abituale consumo.
tra i ragionamenti anche le paure -che permangono-“l’antisu !?-scappava lo sproloquio -iddhru-lu castarieddhu te la morte.il discorso lo si intratteneva concitatamente specialmente in paesi intorno a Lecce meno nominata “la cucqacia “.Anni fa, in una lettura tra terzo e quarto s.a.C. di storia .romana rammento delle frasi : più o meno queste…..andiamo ..prima dell’ora dei gufi e delle civette, possibile eredità? Condivido prof.Polito la Sua chiara esposizione- encomiabile saggio di memoria storica.Non condivido le precarie assonanze storico-Bizantine anche se i due capisaldi erano Otranto e Gallipoli. ma quì il discorso è altro,grazie sempre.peppino
[…] Qui, intanto, un curioso approfondimento sull’etimologia della civetta in salentino. […]
La ringrazio per il contributo dato, mediante la segnalazione del nostro link sul suo blog, alla diffusione anche oltralpe della conoscenza della salentina “cuccuàscia”.